Quello di Nicola Padovani è un percorso di appropriazione. Ricognizione e riconoscimento.
Lontano dall’essere mera catalogazione, le opere segnano passaggi successivi di un’indagine prima di tutto autobiografica, ma che, come spesso accade, si rivela come paradigma e come exemplum anche per gli altri.
Le prime opere, astratte, presentano in nuce diversi aspetti della ricerca affrontata nei cicli successivi: un materiale straordinario, ma ancora informe e caotico. Da questo universo di segni scaturiscono alcune forme della realtà oggettuale: affermando l’esistente è possibile comprenderlo. Nominare le cose è l’atto umano per eccellenza (Adamo dà un nome, e quindi un’esistenza, a tutto il creato e, in questo modo se ne appropria).
Nel dipingerli, l’artista rende propri dapprima piccoli oggetti, sedie o sgabelli, poi, a poco a poco, esplora porzioni di spazio sempre più ampie, fino ad abbracciare interi palazzi e città.
In tutte queste opere c’è, tuttavia, un elemento che inquieta: le strutture sono instabili, le sedie traballano e i palazzi risultano sghembi.
Come per trovare un perno alla porzione di mondo scoperta, l’artista si rivolge allora a se stesso, realizzando il ciclo degli autoritratti.
La valenza affermativa dell’autoritratto è evidente, ancor più considerando che l’artista si racconta non soltanto nel presente, ma anche e soprattutto nel passato, come in una sorta di “ricerca del tempo perduto”. E in questa ricerca affiorano ansie e paure di fronte alle quali l’artista pone se stesso e noi insieme a lui.
L’ultima serie di opere è, infatti, costituita da numerosi ritratti in cui la visione è ravvicinata. Volti deformati da smorfie e bambini mascherati ci guardano e noi li ri-guardiamo. Siamo di fronte alle nostre stesse maschere, ai condizionamenti che ci danno forma fin dall’infanzia. Non esiste un’età dell’innocenza pura. Queste maschere sono allo stesso tempo una condanna e una salvezza: da una parte ci snaturano, ma, dall’altra, senza di esse non potremmo vivere nel mondo. Sono come protesi che ci trasformano in freaks in mezzo a freaks.
L’artista le mostra prima di tutto a se stesso, ma siamo chiamati anche noi a riconoscerle e accettarle. In questo modo prendiamo coscienza di noi stessi.
Nessun insegnamento morale. Solo constatazioni, ricognizioni e appropriazioni. Se noi diamo un nome, un’immagine, alle strutture che ci determinano e delle quali diveniamo parte, possiamo riconoscerle e guardarle con serenità, senza più alcuna inquietudine.
Roberta Gnagnetti
Le prime opere, astratte, presentano in nuce diversi aspetti della ricerca affrontata nei cicli successivi: un materiale straordinario, ma ancora informe e caotico. Da questo universo di segni scaturiscono alcune forme della realtà oggettuale: affermando l’esistente è possibile comprenderlo. Nominare le cose è l’atto umano per eccellenza (Adamo dà un nome, e quindi un’esistenza, a tutto il creato e, in questo modo se ne appropria).
Nel dipingerli, l’artista rende propri dapprima piccoli oggetti, sedie o sgabelli, poi, a poco a poco, esplora porzioni di spazio sempre più ampie, fino ad abbracciare interi palazzi e città.
In tutte queste opere c’è, tuttavia, un elemento che inquieta: le strutture sono instabili, le sedie traballano e i palazzi risultano sghembi.
Come per trovare un perno alla porzione di mondo scoperta, l’artista si rivolge allora a se stesso, realizzando il ciclo degli autoritratti.
La valenza affermativa dell’autoritratto è evidente, ancor più considerando che l’artista si racconta non soltanto nel presente, ma anche e soprattutto nel passato, come in una sorta di “ricerca del tempo perduto”. E in questa ricerca affiorano ansie e paure di fronte alle quali l’artista pone se stesso e noi insieme a lui.
L’ultima serie di opere è, infatti, costituita da numerosi ritratti in cui la visione è ravvicinata. Volti deformati da smorfie e bambini mascherati ci guardano e noi li ri-guardiamo. Siamo di fronte alle nostre stesse maschere, ai condizionamenti che ci danno forma fin dall’infanzia. Non esiste un’età dell’innocenza pura. Queste maschere sono allo stesso tempo una condanna e una salvezza: da una parte ci snaturano, ma, dall’altra, senza di esse non potremmo vivere nel mondo. Sono come protesi che ci trasformano in freaks in mezzo a freaks.
L’artista le mostra prima di tutto a se stesso, ma siamo chiamati anche noi a riconoscerle e accettarle. In questo modo prendiamo coscienza di noi stessi.
Nessun insegnamento morale. Solo constatazioni, ricognizioni e appropriazioni. Se noi diamo un nome, un’immagine, alle strutture che ci determinano e delle quali diveniamo parte, possiamo riconoscerle e guardarle con serenità, senza più alcuna inquietudine.
Roberta Gnagnetti
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